Di
prima mattina non si pronuncia alcuna parola, e nessuno deve
rivolgerti la parola. Di prima mattina non si sorride e non si fanno
progetti per la giornata. Non si stira, non si mettono i panni
sporchi nel cesto, non si aprono le tende, non si leggono i messaggi.
Ma soprattutto di prima mattina non ci si guarda allo specchio. Lo
specchio si evita fino a quando non si è truccati.
Gloria
segue alla lettera tutte queste buone regole, ma commette l’azione
più grave che una donna possa commettere di prima mattina. Un
qualcosa che non è nemmeno consentito citare. Un’azione che può
rovinare tutto il resto della giornata: si pesa.
Si
pesa tutte le mattine. Infatti ha sempre un pessimo umore. Gli si
annebbia la vista, odia spudoratamente tutto ciò che è commestibile
e diventa insensibile alla fame nel mondo.
‒
Tre
etti in più di ieri, tre etti!
Ripete
e ripete – tre etti, tre etti.
Ecco
il dramma che si porterà dietro per tutta la giornata. Quando
percorrerà la strada per prendere il treno: ansimerà.
‒
Tre
etti di peso in più, nella sua testa: è obesità!
Essere
obesi è un vero disagio, già dalle prime azioni della giornata.
Quando ti vesti:
‒ ecco
il bottone dei pantaloni mi si conficca nell’ombelico e le gambe
sembrano essere compresse dentro tubi cilindrici. L’anello non esce
dal dito, non gira neppure, è fermo qui mezzo sbilenco e non c’è
modo di fargli fare un piccolo movimento di rotazione. Il collo alto
della maglia stringe addirittura al collo e pure le scarpe sembra che
mi vadano strette.
Tre
etti di peso possono causare danni incalcolabili. Demoliscono
l’autostima e istigano al digiuno, all’autolesionismo e in alcuni
casi all’omicidio, se solo qualcuno si azzarda a dire:
‒
ma
hai preso peso?
‒
preso
peso? A chi? Io non ho preso nulla a nessuno, è tutta roba mia.
Purtroppo!
Non
tutti sanno che quando si incontra una donna, chi essa sia, qualsiasi
età abbia, per qualsiasi motivo si incontri, la prima frase da dire
per aprire un dialogo, un’intesa, una collaborazione, una notte di
sesso è: quanto sei dimagrita! E da lì ti si apre un mondo.
Gloria
faticosamente riesce ad arrivare a lavoro. Il primo che incontra è
il suo collega Roberto, personcina per bene, un docente rispettato e
rispettoso, ma sempre ironico, anche un po' troppo a volte.
‒
Fatto
serata eh! Si vede non nasconderlo, sei gonfia.
‒
Sono
gonfia, oddio se ne accorto subito. Ecco lo sapevo sono stati quei
quattro biscotti allo zucchero di canna. Ne ho mangiati solo quattro.
Eppure hanno lasciato il segno.
‒
Ci
siamo ubriacate eh! Hai gli occhi gonfi.
Parlava
degli occhi, ecco mi chiedevo: come ha fatto a notarlo subito? Ho messo
una maglia di mia madre XXXL che mi arriva alle ginocchia, per
coprire il grasso in eccesso.
Entro
in classe, è tutto come sempre: i ragazzi non si accorgono, ne di me
ne che sono ingrassata, sono tutti presi dai cellulari, che hanno tra
le mani (e non potrebbero.) Richiamo l’attenzione con un buongiorno
carico di timbro e volume. I cellulari spariscono, i ragazzi si
ricompongono con calma, ognuno nel suo posto.
Il
vocio non si placa:
‒ ehi
fra visto la prof che maglia vintage che ha?
‒
Si
bro l’ho vista!
‒
Mah
vezz sembra mia nonna vestita da sfatta.
C’è
un brusio fastidioso e insistente
‒
chissà
cosa avranno da dirsi quei tre laggiù in fondo. Li richiamo, li
minaccio, gli metto una nota.
‒
è
una bummer fra!
‒
Ci
ha schicciati!
Finalmente
inizio la lezione, si sono tacitati e fingono di ascoltare la
lezione. Quando suona la ricreazione sono già tutti in fermento, e
io so perché. Rientrano in classe pieni di ogni schifezza possibile.
Svuotano i distributori e arrivano carichi di Duplo e Fieste e
patatine e tramezzini e biscotti cioccolatosi. Sembra che debba
scoppiare una guerra e hanno paura di rimanere senza provviste.
Io
non mangio, ho la nausea. Sono obesa. Esco velocemente, appena finita
l’ultima ora, preferisco non incontrare nessuno. Passo dall’uscita
secondaria, dopo aver appoggiato la mia roba nella sala insegnanti a
testa bassa. Faccio il giro lungo per andare a prendere il treno.
Attraverso il ponte, arrivo sotto ai portici, salgo al parco, scendo
le scalinate percorro il viale, attraverso al semaforo e mi ritrovo
di fronte alla stazione. Controllo i passi ne ho fatto 3550 contro
gli 8000 che dovrei fare. Oggi salto il pranzo, salto la merenda e
forse salto anche la cena. Salto, per schivare lo zaino di un ragazzo
seduto a terra e cado miserabilmente sul marciapiedi del binario
numero 9.
Batto
la testa, ne sento il rumore. Sento anche l’annuncio che sta
arrivando il mio treno, cerco di alzarmi, non ci riesco. Un ragazzo,
dall’apparenza non del posto mi aiuta, è gentile e garbato, mi
raccoglie la borsa e mi chiede come sto:
‒
como
svate signiore? Vi ho fare male voi?
È
peggio del linguaggio dei ragazzi di scuola, quasi incomprensibile.
‒
sto
bene, grazie. Lo rassicuro.
Intanto,
a terra, dal lato del mio piede, vedo una, due e più gocce di
sangue.
‒
la
sangue! ‒ grida il ragazzo.
Infatti
è sangue, il mio sangue, scorre dal ginocchio. Mi guardo e vedo un
buco nei pantaloni. Molto probabilmente c’è una ferita al
ginocchio. Mi siedo su una panchina, che mi libera una signora
distinta e gentile, e pure magra. Questo mi fa un po' rabbia, mi
acciglio, è per il dolore, lo faccio intendere a tutti. C’è un signore con il bastone, due ragazzi con un skait bool e un uomo tutto
impettito con giacca e cravatta, anche lui magro. Apro la borsa, tiro
fuori i fazzoletti, alzo i pantaloni e mi asciugo. Intanto il ragazzo
straniero non mi molla, osserva ogni mia azione. La signora invece si
è allontanata, i ragazzi si rollano una sigaretta, il signore con la
cravatta parla al telefono. Il treno, successivo non arriva, eppure era stato
annunciato. Provo ad alzarmi e a fare due passi per sentire quanto
male ho, adesso sento male anche alla testa, mi porto la mano appena
sulla fronte a destra tra i capelli e noto che ho un bel bernoccolo.
La gamba mi fa troppo male, non riesco a stare in piedi. Mi risiedo
sulla panchina, arriva il treno. Sale la signora, salgono i due
ragazzi, sale il signore impettito. Io non salgo, Hassen non sale.
Al
pronto soccorso mi chiedono se è mio figlio? C’è gente daltonica
in giro. Io sono bionda, carnagione chiara e occhi azzurri. Hassen ha
i capelli neri, la pelle nero chiaro, e gli occhi neri. Poi se apre
la bocca...meglio che la tenga chiusa.
Mi
danno alcuni punti di sutura e una fasciatura stretta, un controllo
dopo una settimana e sette giorni di antibiotico.
Io
sono seduta sulla panchina stavolta al binario numero 6, Hassen è di
fianco a me. È stato con me tutto il pomeriggio. Io sto meglio, in
ospedale mi hanno dato un antidolorifico potente. Appena l’ho preso
non ho sentito più nessun dolore, ho sentito solo una gran fame. Ma
a questo ci ha pensato Hassen, abbiamo due kebab in mano, che
sbottavano di ogni cosa, peseranno più di tre etti. Li divoriamo su
un binario deserto, in una quasi notte di fine inverno. Uno più
affamato dell’altro.
‒
Ma
tu dove stavi andando Hassen?
‒
io
no prede treno. Io arriva da città altra.
Lo
guardavo mentre mangia, è magrissimo, è vestito poveramente, ha un
paio di scarpe consumate, uno zaino con una marca pubblicitaria e un
sorriso bellissimo. Do un altro morso al kebab, mastico lentamente,
assaporo la generosità e prendo lezioni di vita.